SOCCORSO pei poveri inondati – Nov. 1889 – Inondazioni bolognesi

Numero speciale de Il Resto del Carlino il cui intero ricavato servì per raccogliere fondi a favore degli alluvionati della disastrosa alluvione del fiume RENO, che accadde nei primi giorni di novembre, alla chiavica Aldina in località Cantone, fra Pieve di Cento e Galliera. In alto in prima pagina il suggerimento di donare ” 20 centesimi…almeno ” Sotto si possono scorrere le 8 pagine della pubblicazione con diverse illustrazioni, poesie e scritti di Corrado Ricci, Olindo Guerrini, Enrico Panzacchi, Quirico Filopanti e altri. Inoltre all’interno è pubblicato un biglietto scritto e firmato da Giosuè Carducci, che accompagna la sua donazione di 20 lire, indirizzato a Zamorani, direttore-fondatore del Resto del Carlino…

Descrizione

Soccorso pei poveri inondati

Corsi e ricorsi storici…. Di seguito la trascrizione di due testi contenuti nell’edizione che, purtroppo, risultano quantomai attuali ad oltre 130 anni dalla loro pubblicazione…

INONDAZIONI BOLOGNESI

Io mi sono proposto di raccogliere in pochi cenni alcune delle più celebri inondazioni dei tempi antichi, dal sec. XIll al secolo XV, onde fu desolata questa nobilissima provincia, parendomi che possa tornare di qualche distrazione alle miserie presenti lo specchio e il racconto delle già lontane. Le fonti a cui ho attinto le notizie sono quelle autorevolissime degli antichi Cronisti dei quali la nostra Biblioteca Universitaria possiede un tesoro. Alla fine del 1220 la grandissima pioggia che per tre di e tre notti duro continua, ruppe gli argini che tenevano a freno i fiumi, laonde si allagò tutta la contrada e territorio di Bologna e vi morirono infiniti animali di ogni sorte; ruinarono i ponti e molte case, e infiniti alberi andarono in terra. Avevano già cinque giorni prima annunziata questa ruina tuoni spaventosi, lampi, fulmini, furiosissimi venti; e se al rapido e sconcertato corso dei fumi nella città nostra, dice il Ghirardacci, non si provvedeva, avrebbero cagionato le acque infinito danno ai cittadini.
Nel 1269 per le grandissime piogge il Reno passo sopra il ponte di Casalecchio e ruppe due archi che dai Canonici di S. Salvatore furono poi rifabbricati e nel contado quasi sommerse Massumatico, Argile, Cento, la Pieve, e rovinò molti altri ponti e molini.
Il principio dell’anno 1320 fu molto malinconico: perché dal 1 Gennaio fino al 6 venne tanta copia di neve, che si alzò da terra un braccio le mezzo, e il di settimo, cessata la neve, cominciò la pioggia, e durò tre mesi. Reno ruppe nella Corte di Bagno: allagarono le acque tutto il territorio di Bologna con grandissimi danni, si che per esse e per la carestia generale di tutta Italia, gli uomini, dicono i Cronisti, si erano ridotti a desiderare la morte non potendo più vivere fra tanti stenti.
Nel 1343 fu grandissima pioggia nel contado di Bologna e il fiume Reno, al solito, venne fuori del suo letto, sfogandosi contro Casalecchio ove rovinò la Chiesa e molte case.
Era circa un’ora di notte (di Aprile 1365), quando nella città si senti un così gran terremoto, che pose un immenso spavento in tutto il popolo, e andarono per terra molti edifizi pubblici e privati. I Cronisti annoverano fra le rovine tre case dei Lambertini da Santa Tecla, dove, pietoso avvenimento, morirono Lippo, la moglie e due piccoli figliuoli. Ruino la beccheria di Rolandino Gurrini, e la torre dei Corforati nella via dei Bagnaroli si aperse fino ai fondamenti.
Cessato alquanto il terremoto, seguitarono impetuosi venti, con acqua e tempesta orribile, e non solo nella città, ma anche in tutto il territorio. Le acque dei fiumi rompendo gli argini allagarono tutto il paese e fecero grandissimi danni dal Poggio infino ad Altedo.
E come se le inondazioni naturali non bastassero a desolare il paese, aggiungerò qui il racconto di una inondazione artificiale. Nel 1401 Giovanni Bentivoglio signore di Bologna (lo racconta Pier di Mattiolo) per far dispetto e guerra al suo gran nemico e rivale Alberico da Barbiano allora assente, gli fece tagliare una grande acqua addosso lo castello di Barbiano, intanto che tutta quella contrada era allagata: di che Alberico tornando furioso dal Milanese saccheggio, bruciò, come da predone e da conquistatore Santa Maria in Duno, Rubizzano, S. Giovanni in Persiceto, San Giorgio, Cento e In Pieve, Medicina e tanti e tanti altri castelli. Come dovevano star bene i sudditi fra tutte quelle delizie di governanti e guerrieri!

ALBERTO BACCHI DELLA LEGA

Bologna Stab. Tip. Zamorani e Albertazzi Pizza Cavour, 4- Palazzo Silvani. Litografa F. Casanova e Figlio

LA PIENA

La fiumana! la fiumana!
s’udiva gridare da ogni parte. E i monelli del villaggio, intenti a scavare, per giuoco, la sabbia d’un renaio, levati curiosamente gli occhi e sorriso alla danza del sole meridiano, si reclinarono, increduli e spensierati, a proseguire l’opera interrotta. La fiumana! echeggiarono in coro più voci, dal ponte. Allora, scossi da un lieve fremito di paura, guatarono intorno, e, veduta l’acqua, dinanzi ferma e limpida, scorrere lenta et qua e colà brulicante di bollicine biancastre, scattati in piedi si smossero per fuggire. Avrebbero, senza fatica e senza pericolo, guadagnato la sponda, se, quasi affascinati dal terrore di quanto scorsero, non si fossero soffermati. Un muro di melma liquida, piena di lampeggiamenti sinistri del sole, pendeva minacciosa dal ciglio della chiusa, e da questa, in rigagnoli gonfi, strosciava e balzava in cascatelle schiumose.
La fiumana! la fiumana!
In un attimo tutta la chiusa era ricoperta come di immense squame d’argento, rincorrentisi a precipitare nell’alveo, dove si frangevano mugghiando e rimbalzando. in alto, tramutate in guise d’orribili mostri dalle criniere candide come neve. Scappate! S’udiva confusamente gridare, di mezzo lo strepito fragoroso e assordante delle acque. – Scappate! Ma lo spavento teneva ancora quei fanciulli come istupiditi e confinati sul l’arena.
Scappate! scappate!
Per un moto istintivo e impetuoso, si spinsero verso il torrente; ma, come chi correndo si sofferma e s’arretra inorridito, sul margine d’un abisso, sostarono alla vista della corrente ondosa e veloce, e.. disperatamente urlando, retrocessero. In quel punto giungevano sull’ argine, pallide, trafelate, con le mani levate al cielo, alcune donne, discinte e scalze; le quali, correndo, chiamavano ciascuna per nome i propri figliuoli. Mamma, oh, mamma! rispondevano questi, mostrando i loro visetti bruni bagnati di lacrime. E le madri, con le braccia protese, mute per lo spavento e il dolore, simili spettri scendevano nell’acqua, e vi si affondavano ad ogni mutar di passo, inconsce e incuranti del pericolo. Perdio! volete annegarvi! Tornate indietro….
Si volsero per vedere in viso colui che così le apostrofava, credendolo un auspicato salvatore. Ma era un vecchio. Non gli risposero, e seguitarono a tentare il guado. Se non che la corrente era tanto impetuosa, che, sentendosi esse ormai trascinar sotto, immobili, ma pur lottando per non cadere, stettero a lungo, emergenti dalla cinta in su, con le braccia e la voce a supplicare quei del ponte ad accorrere
Ma di che soccorso potevano essere capaci, quegli uomini? Erano tutti vecchi e fanciulli. Gli uomini valenti, i mariti ei figli maggiori, erano lontani, erano ancora nei campi, a quell’ora; alla filatura, e via coi barrocci, o le cazzuole. Oh, Maria santissima! esclamavano, piangendo le povere donne, costrette dal crescente furore della piena a tornare sulla sponda. E, intanto, i figli, fatti muti per l’orrore di quella immensità d’acqua tur- binante che li circondava, sobbalzando ad ogni ondata sottile e insidiosa strisciante sul greto a lambir loro i piedi, istintivamente si tenevano l’un contro l’altro, quasi per fare argine all’urto aspettato della morte, e giravano l’occhio dilatato e smorto dall’angusto lembo di sabbia, che ancora li sorreggeva, alle madri pietose e disperate, cui credevano vedere in un triste sogno.
Chiamati dalla campana della chiesa che suonava a martello, giunsero final- mente alcuni uomini, giovani e forti. Ad essi, le madri, rinate alla speranza, si volsero piangendo, colle mani giunte; e, angustiose, tentando invano di esortarli, di benedirli, frettolosamente li parlare, trassero in riva all’acqua; dove, vedendoli lenti a spogliarsi, come solevano coi loro bimbi, li aiutarono a levarsi i panni e la camicia di dosso, e convulsamente li spinsero per le schiene ignude a buttarsi nel fiume. Ma, ahimè! quale disperazione nuova e straziante, nel vedere quegli uomini non reggere all’impeto della corrente, e rischiare ad ogni tratto d’esserne travolti! Con tutta l’anima negli occhi, e la persona protesa come in un agguato, le donne fissavano le carni luccicanti tra l’acqua melmosa, ne seguivano ansiose la lotta, or gettando un grido disperato, ora di gioia, ora una parola d’incoraggiamento o di esortazione ad andare innanzi e tentare di nuovo. Ma invano! Ad uno ad uno, stillanti d’acqua tornarono alla riva. Allora fu un coro di singulti, un gemere lungo e doloroso delle povere madri, cadute sull’erba con la faccia tra le mani. Poi una di esse, rialzandosi trasfigurata dalla disperazione, cominciò ad inveire contro quegli uomini inetti, che avevano la crudeltà di lasciar affogare dei poveri fanciulli». Anche le altre balzarono in piedi, e tutte insieme, alternando le preghiere agli insulti e il gesto supplichevole al minaccioso, circondarono gli uomini; i quali, nudi e con la camicia contro il seno, le ascoltavano capo chino, sopraffatti dalla propria impotenza.
Ma l’ira delle donne si fuse ben presto nel dolore più straziante. Vedevano già l’acqua giungere e crescere sui piedi ai figliuoli; epperò, spinte da un farnetico cieco e con le mani sulle spalle agli uomini cominciarono a singhiozzare sui loro petti bagnati, e a raccomandarsi fervidamente ad essi coi più dolci nomi, con intonazioni che avrebbero commosso i cuori più insensibili.
Ma si, ma si! – Esclamò il Gigantino, sciogliendosi dalle braccia che quasi lo soffocavano – Anche a costo d’annegarmi…
Poi, gettata la camicia, nell’atto che stava per entrare nel fiume, colpito da un pensiero, si fermò e si volse a chiedere della corda. Cintosene i fianchi, e raccomandatosi ai compagni di tenerla ben soda per trarlo a sé, se l’avessero veduto pericolare, risolutamente si buttò al cimento contro la fiumana. Questa, nel frattempo, si era fatta più alta e impetuosa, e, come trofei della sua potenza distruggitrice, recava fascine ed utensili galleggianti, piccoli naufragi, che facevano sparger lacrime tra’ monti. Il Gigantino se ne sentiva ad ogni tratto percosse le braccia e il petto; ma, imperturbato e forte, lottava, lottava vittorioso. Ma non aveva più che un paio di metri per approdare sul renaio, quando si senti inceppato a seguitare.
Corda! – gridò, volgendosi indietro.
Non gliene potevano più dare. Era. Finita.
Sulla sponda, in mezzo a lunga confusione di movimenti e di voci, legarono alla fune una scala a piuoli, mercè cui il Gigantino potè avanzare d’alcuni passi. Ma non bastava, non bastava ancora.
-Corda, perdio! –
Scendevano in quel momento dall’argine uomini e donne con grandi matasse di corda, e le corde furono in breve congiunte insieme e per l’un de’ capi assicurate alla scala. Ma quando buttarono questa in acqua, per il suo peso e la sua lunga superficie esposta all’urto della corrente, il nuotatore ebbe d’improvviso uno strappo così violento che per poco non cadde, e solo gran fatica, dolorando per la fune che pareva segargli il corpo, poté finalmente metter piede sul greto. Di là, negato. stentando sempre per vincere la tensione della corda, gridò che bisognava liberarsi della scala, e la trasse fino a sé sull’arena, Tolto così di mezzo il nuovo pericolo, e fatti nudare i fanciulli, con uno di essi sul dorso entrò nella fiumana e ne seguì la corrente, mentre dall’argine, correndogli paralleli, lo andarono man mano trascinando alla sponda. Deposto per tal modo un primo salvato tra le braccia materne, ripartiva senza indugio più e più volte per quelle audaci spedizioni, descrivendo nell’andare un arco a valle dalla riva al renaio, e da questo alla riva, nel ritorno.
Non rimanevano più esposti al pericolo che due ragazzetti, aspettanti, ignudi il salvatore, ritti sulla scala, coi piedi sugli staggi e l’acqua fino agli stinchi. Essi avevano fino allora lavorato ad assicurare ai piuoli i proprii indumenti e quelli dei compagni, è benché non piangessero come foglie tremavano per la paura: tremavano e si sentivano invasi da uno sgomento nuovo, osservando il nuotatore che venendo a loro si sommergeva ad ogni tratto, e avanzava più a stento del solito. – Oh, Dio, Dio! – Susurravano gli spettatori e le madri dei due fanciulli allibivano vedendo scorrere nella fiumana, dianzi rossiccia, alcune strisce grigie; perché sapevano bene che la prima era acqua del Setta, scorrente per terre ocrose, mentre l’alto Reno ne manda del color di cenere. Nessun dubbio, purtroppo! Se lo dicevano gli uomini, scambiando occhiate di spavento: anche i monti toscani rotolavano giù per Reno la furia dei loro torrenti. E ben lo sentiva il Gigantino, alla violenza ormai irresistibile delle onde, che ad ogni istante lo attuffavano, rendendo vano il suo dimenare di braccia e di gambe, e lo travolgevano per lunghi tratti, Giunto, ansante e fuor di lena, sul renaio, senza pigliarvi riposo. si accinse di nuovo al pericoloso transito, col solito fardello sulla schiena.
In quell’istante; dall’argine e dal ponte alzossi al cielo un immenso grido d’orrore. Avevano veduto il fanciullo, rimasto ultimo in mezzo alle acque, levar d’ improvviso le braccia in atto disperato I ‘avevano Veduto barcollare, poi cadere innanzi, indi partire così carpone, coi piedi e le mani sugli staggi della scala, trascinata velocissima dalla fiumana.
Ahi, che strazio alla povera madre! Forsennata, s’arrampico sull’ argine; e via, via! lungh’ esso, ansimando e gemendo con un ululo da cagna arrabbiata; via, via! attraverso i cardi e i pruni, cogli occhi fissi nel fiume grigio, in cerca del figlio perduto. La gente la rincorreva, faticando a tenerle dietro, e nell’ aria era tutto un lamento sommesso e lungo, unito al frusciare sinistro dell’acqua. E la, la….! ripetevano insieme più voci affannose, Si scorgeva, infatti, il piccolo naufrago, lontano, ondeggiar lento in mezzo alla piena; la quale, lungi dall’impulso della chiusa, scorreva meno, rapida e vorticosa, battendo, un rumor sordo i fianchi degli argini.
È là, è là! – La madre raddoppiò di lena nel correre, e, giunta a pari del figlio, più e più volte con voce straziante lo chiamò per nome; e, pazza di dolore, con uno slancio. di leonessa si buttò nell’acqua. Ma l’acqua paga forse d’ una preda, pur trascinandola un tratto distesa e supina, pareva respingerla sulla terra, e l’imprigionò tra gli steli curvi d’ una macchia di salici. Fu subito tratta sull’ argine, fuori dei sensi. -Ahi. povera donna! meglio fosse morta! pensavano tutti, guatando spaventati innanzi come per vedere un orribile spettacolo. Povera madre! Buon per lei, che Dio misericordioso le ha chiuso gli occhi…
Laggiù il fiume svoltava contro una sponda alta e tutta di macigni, e l’acqua vi turbinava, aggirandosi in un profondo vortice. Era “il buco della morte”, come lo chiamavano in paese. Impossibile, uscirne vivo.
Oh! beatissima Vergine! – pregava ognuno, mentalmente. E ristettero tutti, ansiosi, trepidanti, ad aspettare la catastrofe. Videro il fanciullo trascinato come una freccia verso l’abisso: lo videro sommergersi e ricomparire più volte, e infine perdersi, sprofondarsi, tra le onde alte, e schiumose.
Un singhiozzo doloroso usci da tutti i petti, e tutti gli occhi si velarono di pianto, scorgendo rimbalzar fuori del vortice, e ritta, le scala, solo la scala! e, poco dopo, nell’ acqua grigia luccicare al sole la chioma nera del piccolo annegato.
ABDON ALTOBELLI

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